Per iniziare, una critica. Entrato in casa con in mano il volumetto, subito mi apostrofano:
“Cos’è? Hai preso un album da colorare?”. E in effetti quel “Color Fest” buttato lì sotto il logo di Dyd in mezzo alla stupenda copertina di Dell’Otto, con quei colori da arcobaleno, quasi a ricordare una clip Word Art mal riuscita, beh, effettivamente la prima impressione che un profano ha è quella di un piccolo libretto da strapazzare con pastelli e pennarelli… se solo non fosse già colorato.
E infatti a sfogliarlo non sembra nemmeno un albo dell’indagatore dell’incubo, tant’è sfavillante e pieno di tinte vivaci che appaiono quasi fuori luogo, così diverse dal rigido schema monocromatico a cui la Bonelli ci ha abituato (seppur con qualche eccezione) dal lontano ’86.
Concluse le smorfie causate dal titolo e superate le ovvie considerazioni di stupore riguardo i colori, si apre il volume e si inizia la lettura.
Si parte subito con Dylan in Wonderland (Gualdoni/Brindisi): il piccolo Dylan e la sua amica Alice si tuffano in un viaggio tra realtà e fantasia nel paese di Wonderland, in un mondo di sogni e ma anche di paura e tremendo sconforto Come suggerisce il titolo, il riferimento ad Alice e il paese delle meraviglie è più che ovvio e risulta fin dall’inizio ben evidente anche un collegamento all’immortale storia di Peter Pan e alla volontà di “non crescere”, un desiderio che si annida in tutti noi. Potrebbe sembrare una storia basata su temi scontati e abusati, ma state sicuri che non è affatto così. Non mi sembra il caso di svelarvi la conclusione rovinandovi la lettura, ma vi basti sapere che non è tutto come potrebbe sembrare: la sorpresa è pronta dietro l’angolo per colpirvi piacevolmente, magari lasciandovi anche un po’ di malinconia. Voto 8
Un esordio che colpisce quello di Roberto Recchioni sulle pagine di Dylan Dog, con la sua Fuori tempo massimo. Dopo vent’anni passati in coma su un lettino d’ospedale, il pluriomicida Axel Neil si è svegliato, e non certo per prendere una tazza di tè. E’ assetato di sangue, ma si trova spiazzato da un mondo così diverso dai suoi anni ’80, anni ricordati da riferimenti più o meno evidenti, sparsi qua e là, a canzoni e gruppi rock/metal del periodo. E, parlando di citazioni, o “trite frasi a effetto”, come le descrive Dylan, è impossibile non notarne alcune molto fini (non so se volontarie o involontarie): per fare solo qualche esempio, il “Cenerai all’Inferno” è di chiaro stampo Trecentesco (il capolavoro di Miller, non il secolo); o ancora il “Questo è il meglio che sapete fare, mammolette?”, liberamente ispirato alle ultime parole del Marv di Sin City. E in effetti il nostro Axel Neil ci ricorda proprio Marv, in tutto e per tutto: grosso, grottesco, violento (un eufemismo, in questo caso), bruttissimo, ottuso; viene la voglia di prendere in prestito un’altra frase da Sin City, per descrivere Neil a puntino: “I più pensano che Marv sia pazzo. Ha solo avuto la sfiga nera di nascere nel secolo sbagliato; si sarebbe sentito a casa in un antico campo di battaglia a sventolare un’ascia in faccia a qualcuno, o in un’arena romana a fare a spadate con altri gladiatori come lui.”
E succede proprio così anche ad Axel: non è a suo agio nel mondo di oggi, il suo antico campo di battaglia e la sua arena erano gli anni ’80. Ma ora è fuori tempo massimo.
A rendere questa storia ancora più sopra le righe ci sono i disegni di Massimo Carnevale, veramente eccelsi, a tratti quasi Milleriani (o sono io che vedo Miller dappertutto?), con un nero vivo e molto presente. Il colore non è, come negli altri racconti dell’albo, piatto e innaturale. Qui è parte integrante della vicenda, dei disegni: passiamo dalle tinte vivaci al quasi bianco e nero di alcune sequenze, in un gioco di luci e di ombre. Uno spettacolo per gli occhi.
Purtroppo anche nelle migliori produzioni bisogna trovare un difetto. E qui a fare da pecora nera è la fine della storia, una chiusura che sembra un po’ frettolosa. Non assolutamente nel senso di “scritta di fretta e con poca cura”, anzi! Il fatto è che non sembra del tutto credibile, c’è questa “conversione” che sembra troppo repentina, ecco tutto. C’è di buono che con l’ultima, esilarante battuta l’opera di Recchioni si fa perdonare ogni piccola pecca. Complimenti all’autore e auguri per la sue prossime avventure dedicate all’indagatore dell’incubo. Voto 8 abbondante
E’ l’acclamatissimo Tito Faraci l’autore del penultimo racconto, L’Accalappiasogni. Per il piccolo Billy è un momento molto triste: il suo amico immaginario, un cane bianco a strisce arancioni di nome Baldo, è scomparso e il ragazzo sospetta che sia stato rapito. Ancora una volta tocca a Dylan Dog risolvere il mistero del cane Baldo, e riportare a Billy il suo fedele compagno.
Come temi L’Accalappiasogni ci riporta subito a Dylan in Wonderland: fin dall’inizio sembra quasi che si voglia creare un legame con la spensieratezza dell’infanzia e il mondo fiabesco, con Dylan che viene paragonato ad un cavaliere senza macchia, difensore dei più deboli. Un legame che continua ininterrotto fino all’ultima divertente vignetta dedicata a Groucho.
Sicuramente non avete idea di quanto mi dispiaccia dire che questa è la storia che meno preferisco fra le quattro. L’abilità di Faraci alla penna è indiscutibile, molte battute sono azzeccatissime, ma il racconto ha un solo difetto, se di difetto possiamo parlare: l’ambientazione, i temi, lo svolgimento della trama sono quasi cartooneschi, con evidenti echi Disneyani. Ripeto, non che ci sia qualcosa di male in questo, sia chiaro, però L’Accalappiasogni sembra un po’ fuori luogo. E’ anche vero che uno degli obiettivi di questo Color Fest era esplorare risvolti sconosciuti del mondo di Dylan Dog, e se guardiamo l’opera di Faraci da questo punto di vista, bisogna ammettere che l’autore ha proprio colpito nel segno. Ma forse la colpa maggiore risiede nel fatto che nell’albo è stata posizionata appena dopo Fuori tempo massimo, e le differenze fra la storia “adulta” di Recchioni e questa più “bambinesca” sono ancora più marcate. Probabilmente se fosse stata posta all’inizio del volume e non in terza posizione l’effetto sul lettore sarebbe stato diverso. Voto 7
E si arriva così fin troppo in fretta all’ultima storia, Il Vampiro dei Colori, opera di Giovanni Di Gregorio. Uno sconosciuto viene trovato privo di sensi e condotto all’ospedale: clinicamente è sano come un pesce, gli unici elementi che destano non poca perplessità sono uno strano morso sul collo e il colore della sua pelle. No, Dylan non è diventato razzista, il fatto è che davanti agli occhi si trova una persona dal cui corpo è sparita anche la più minima traccia di colore! Il colpevole è forse un vampiro nemico del Technicolor? Possibile, ma la conclusione riserba ancora qualche sorpresa.
Ed è proprio questo finale che non mi ha convinto del tutto: come in Fuori tempo massimo viene scaraventato nella scena in modo un po’ repentino e, pur essendo originale, è forse un po’ “troppo” anche per l’universo di Dylan Dog. Per il resto la sceneggiatura è impeccabile; le uscite di Groucho sono fantastiche, come non si vedevano da lungo tempo: solo quelle renderebbero Il Vampiro dei Colori un racconto da non perdere, insieme ai dialoghi ben scritti e all’ironia sempre presente. Voto 7
Per concludere questa sorta di recensione, uno sguardo all’opera completa: il Color Fest è quindi un esperimento ben riuscito, una boccata di aria fresca per il ventenne Dylan Dog, un tentativo di esplorare facce del personaggio ancora sconosciute a noi lettori e una possibilità per autori estranei a Dyd di fornire il proprio contributo. L’unico difetto è che le storie meriterebbero ben più di 32 pagine per essere apprezzate come si deve.
Voto 7 abbondante